Diciamolo: la Decisione di carattere provvisorio (dura 24 mesi) che la Commissione europea ha proposto di adottare al Consiglio dei 28 stati membri della UE mercoledì scorso, è modesta rispetto alle aspettative e soprattutto alle necessità.
Re-localizzare in due anni 40.000 persone, provenienti da una lista limitatissima di paesi (Siria e Eritrea, che hanno una proporzione di domande accettate di più del 75%) al “modico” prezzo di 6000 euro a rifugiato e con tutta una serie di “se” e di “ma” resta veramente inadeguato. Considerato soprattutto il fatto che in questo momento, la stragrande maggioranza dei profughi e sfollati sta nei paesi limitrofi alle crisi. Il conto quotidiano dell’Alto commissariato per i rifugiati ci dice che oggi, 29 maggio, ci sono 3.979.560 siriani che si sono registrati come rifugiati.
Sono i paesi più poveri che si sobbarcano centinaia di migliaia, milioni di fuggiaschi da guerre, carestie, disastri ambientali (l’80%). Ai loro occhi, le discussioni europee su 3.000 o 4.000 persone da mettere di qua o di là devono parere assurde. E infatti un po’ lo sono.
Ma una volta detto questo, dobbiamo passare alla fase successiva. Perché siamo in democrazia, anzi in una teledemocrazia del brevissimo termine e dell’allergia ai fatti; e oggi per molte persone è sicuramente molto più convincente Salvini (o corrispondenti locali in altri Stati membri) che continua a sbraitare frasi senza alcuna possibilità di attuazione reale come “assistiamoli in mezzo al mare” o “chiudiamo le frontiere” di chiunque cerchi di affrontare la questione in modo meno efficace per le Tv ma forse più utile a trovare strade di governo di questa questione che è destinata a rimanere con noi ancora a lungo. Di governo e di strategie, infatti, abbiamo un gran bisogno.
E di ribaltare con fatti e numeri la diffusa indisponibilità a capire che le tragedie degli altri hanno un impatto anche su di noi e che rifiutando di vedere come anche nostro il loro dolore, anzi restando sostanzialmente indifferenti ai numeri dei morti e alle loro storie, ci rendiamo un po’ complici, come già lo sono state generazioni prima di noi di fronte ad altre tragedie. Insomma, non sono le velleità di costruire una Fortezza Europa ancora più alta che fermerà i barconi. Ma solo una pace duratura e qualche possibilità di vita decente, di cui, che ci piaccia o no, anche noi dobbiamo farci carico, anche perché non siamo proprio senza alcuna responsabilità nella situazione che si è venuta a creare.
A me pare che il punto di partenza sia chiaro. Possiamo anche fare finta di niente e cercare, buttando al vento quel poco di credibilità che ancora abbiamo sulla scena internazionale quando parliamo agli altri paesi di grandi principi, di continuare a voltare la testa dall’altra parte ed ad illuderci che un paio di cannonate, qualche filo spinato in più possa risolvere la questione, perché noi dobbiamo prima di tutto chiudere le frontiere. Ma non servirà.
Questo è il grandissimo punto debole di Salvini, che chi lo invita in Tv non sottolinea mai: le sue ricette non funzionano: lo abbiamo visto, dal reato di immigrazione clandestina, ai milioni spesi nei CIE, ai rimedi peggiori dei mali dei tempi dell’emergenza rom di Maroni e Alemanno. E’ cosi anche sulla gestione dei flussi. Ai tempi del governo Lega-Berlusconi, l’accordo con Gheddafi era di fermare i barconi, ma al prezzo di centinaia di morti, abusi, violenze e privando persone che ne avevano il diritto ad accedere alla protezione internazionale. Certo, erano tutti comodamente fuori dalla vista delle telecamere.
La storia dei respingimenti è stata una delle pagine più buie per l’Italia dei diritti ed infatti è stata sanzionata dalla Corte dei Diritti di Strasburgo. Maroni, Salvini e compagnia la vantano come un grande successo e molti cittadini con loro, totalmente indifferenti rispetto alle gravi conseguenze umane. La progressiva disumanizzazione delle vittime è un dato costante del dibattito in atto in questi mesi e mi sembra un dato che non si possa accettare senza reagire.
E’ urgente perciò che media e governi (anche il nostro) si convincano che, invece di rincorrere il consenso ammorbidendo un po’, ma in fondo recuperando la retorica di Salvini e Le Pen, sia necessario mettere in campo una strategia radicalmente alternativa alla loro, efficace e credibile, che è possibile e viene proposta da molte parti. Altrimenti, la situazione non potrà che peggiorare.
Se si ammette che questo fenomeno non può essere fermato e necessita di risposte coerenti con i nostri obblighi di rispetto dei diritti di tutti, dei migranti ma anche dei più vulnerabili nelle nostre società, allora la proposta della Commissione rappresenta un passetto in avanti sul quale è necessario costruire e mobilitarsi, perché lo stato del dibattito in molti paesi membri è negativo ed il rischio che a giugno non si trovi la maggioranza qualificata per adottarla è molto forte. Con tutte le sue magagne, che devono essere denunciate, (prima fra tutte l’ambiguità sulla prospettata azione militare di cui non si capisce sostanzialmente nulla), essa rappresenta una presa di responsabilità della Commissione Juncker, che agisce in linea con le competenze d’iniziativa in questa materia acquisite con il Trattato di Lisbona e propone un’azione europea su un tema d’interesse comune.
Ricapitoliamo: la Commissione ha fatto una Comunicazione (una specie di annuncio) al Parlamento Europeo e al Consiglio il 13 maggio, con quella che ha definito un’Agenda per la politica d’immigrazione. In questo ambito, il 27 maggio ha proposto al Consiglio degli Stati membri di adottare una Decisione su delle misure provvisorie di re-localizzazione per l’Italia e la Grecia, decidendo di fare ricorso per la prima volta all’art. 78-3 del Trattato di Lisbona, che prevede appunto che l’Unione agisca nel caso di situazioni di emergenza caratterizzate da flussi improvvisi di cittadini di Stati terzi; il Consiglio dovrà poi decidere a maggioranza qualificata sulla proposta della Commissione entro fine giugno: il PE ha solo un potere consultivo; è da notare che viene cosi a mancare alla Commissione un potente alleato in questa partita.
Considerando che la Commissione Barroso si muoveva solo con l’accordo della maggioranza dei governi più forti, almeno Juncker dimostra di voler mettere gli Stati membri di fronte alla loro responsabilità. Se anche questa proposta minima fallirà, responsabile non sarà l”Europa”, ma i singoli governi nazionali. Certo, già che c’era la Commissione poteva fare di più, considerato che le Agenzie ONU chiedono un impegno almeno doppio; e suona foriera di molti problemi l’idea di “pagare” 6.000 euro a rifugiato anche a Stati molti prosperi, drenando 24 milioni di euro dal già scarso fondo europeo per asilo e migrazione, che ha visto la sua dotazione diminuire del 17% nel corso del negoziato sulle prospettive finanziarie 2014-2020.
Sarà interessante anche vedere come funzionerà la concreta messa in applicazione delle “minacciose” misure di sospensione della riallocazione nel caso in cui Grecia e Italia non siano in grado di garantire un trattamento adeguato delle richieste. Se in Grecia con il disfacimento dell’amministrazione pubblica, questo potrà significare un maggiore controllo e assistenza europea che potrebbe avere un impatto positivo su una situazione oggi disastrosa, in Italia si tratta di rilevare una sfida fattibile e che potrebbe anche determinare la fine della vergognosa storia di degrado dei CIE, se l’assistenza e i fondi saranno bene utilizzati.
Insomma, la decisione di riallocazione della Commissione europea potrebbe creare una dinamica positiva e contiene degli aspetti che devono essere colti e integrati in una vasta revisione delle priorità delle politiche di asilo e immigrazione della UE; revisione che deve partire dal presupposto che si tratta di una realtà difficile da gestire da molteplici punti di vista, ma che è lungi dall’essere impossibile, usando al meglio gli strumenti che esistono. L’idea che sia possibile muoversi insieme, anche se poco alla volta e che molto può essere fatto per affrontare in modo civile e realistico una sfida epocale, ci convince ancora di più che è ancora utile battersi per un’Europa più unita e più democratica.
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